Pietro Marino, Un certo sguardo

Un certo sguardo

Lacrime di letteratura e di cinema sono state sparse, abbondanti e toccanti, sul tema dell’esilio, dell’emigrazione, dello strappo dalle proprie radici. Altrettanto a lungo ha vibrato la corda del nostòs, del ritorno, da Ulisse in poi.
Ma non sapeva né di esilio né di ritorno, la bambina di 7 anni che lasciava la terra dove era nata per andare nella terra sconosciuta dove erano nati i suoi genitori.

Per lei era il viaggio, che come la vita non sai dove ti porta e quando finirà. Non staccò gli occhi dal finestrino del bus finché non scomparvero la casa dei suoi giochi alla periferia di Buenos Aires, e senza fine fu lo sguardo perso nell’orizzonte marino sulla grande nave che la portava in Italia.

Adiós, Argentina.

Quello sguardo dolce e assorto, lo sguardo di chi vuole capire e capirsi, emerge ora in un viso di giovane donna di etnia lontana, che sa di Oriente Estremo. Una confessione autobiografica che si reincarna in tutte le donne, tutte le creature nel mondo della dispersione e della diaspora. Ripetizione differente sino all’ossessione, che si rifrange e si moltiplica con lievi spostamenti di corpo, con dettagli di identità mutevole: quel che consente il nostro tempo della omologazione.
Quegli occhi ci interrogano da pannelli sparsi, ritagli di un mosaico che ripete le sue tessere senza sapere come ricomporle. Immagini fissate da una sinopia fotografica, l’incontro casuale con una figura di giornale, precaria traccia di ancoraggio alla quotidianità. Ma poi possedute e immerse nel bagno pallido di una pittura esatta e malinconica insieme, sospesa senza spessore sulla soglia trepida della memoria.

Memoria come filo di un viaggio erratico nel senso di sé, a bordo di una nave fantasma, che appare anch’essa a parete in colori smangiati, come il Rex nell’Amarcord di Fellini.
E’ il viaggio che tenta Guillermina de Gennaro, ora che la sua vita è maturata nella periferia di un altro Sud.

Ma non seguendo il flusso proustiano del tempo, un sentiero che la crisi della modernità ha interrotto (come suggerisce Heidegger): cogliendone i frammenti oggi possibili, raccogliendone i grumi, le voci, là dove l’infanzia perduta può rivivere, almeno come finzione, nel presente. Così l’artista tira fuori dalla caverna platonica le ombre di un gruppo di musicisti che lei ascoltava nell’infanzia argentina.
Il padre Francesco, lo zio Domenico, l’amico Mario, che nel tempo libero andavano con chitarra e bandoneon e maracas per matrimoni e serenate, a suonare e cantare tanghi e boleros, waltz e zamba.
Il viaggio e il tempo hanno dissolto il trio Los Petalos.

L’amico se ne andò negli Stati Uniti. Papà e zio, da quando sono finiti a Bari, avevano riposto i loro strumenti.
Un video li spia ora mentre riaccordano la musica, e il trio è diventato per magia di generazioni un quartetto,
C’è il figlio di zio Domenico e c’è lei, Guillermina, la bambina cresciuta che si presta al canto.
Quasi un remake patetico con ricambio parziale di attori, ma comunque i tempi si mescolano, turbata è l’innocenza antica. Tutto si dà ma nulla è come prima, in questa rappresentazione di un sogno d’infanzia che passa. Come tutti i sogni, presto svanirà in bianco e nero.
E svaniscono i brani di danza popolare sudamericana che s’insinuano negli spazi e percorsi della mostra, quasi che Los Petalos stiano ancora passando di qui, con le loro serenate.

Sul leggìo di papà Francesco appare per un attimo il titolo di una canzone, “Que nadie sepa mi sufrir”.
Che nessuno sappia del mio dolore.

PIETRO MARINO
Critico d’arte